“Preferisco morire piuttosto che restare così che non mi ricordo niente”

Ho ricevuto da Gianfranco Calbucci questa email, con la richiesta di condividerla sul sito. Lo faccio volentieri e aspetto anche altri commenti.

Salve Dr Stefano, vorrei sottoporre a Tua attenzione una mia relazione osservativa su un anziano affetto da demenza vascolare che ho assistito al suo domicilio tra il 2015 ed il 2017.
Quando sostengo che i malati di demenza o Alzheimer si rendono conto del loro disagio anche se non riescono a dirlo in questo caso di questo sig. Mario proprio ho avuto conferma.
Il malato reagisce agli stimoli anche se poi si perde nelle sue elucubrazioni ripetitive, imprecanti e lamentose. In rare occasioni manifesta moti di aggressività e stati corti di agitazione psico – motoria. L’assunzione del farmaco “EN” sembra che lo scompensi ulteriormente. […] Il malato è ancora in grado di pronunciare e rispondere alla domanda come si chiama ma non è più in grado di dire la sua data di nascita ne l’indirizzo di casa. In assai rare occasioni manifesta una certa lucidità mentale durante le quali sembra apparire consapevole del suo disagio e, in un’occasione, ha esternato: “Preferisco morire piuttosto che restare così che non mi ricordo niente.”
Gianfranco Calbucci – OSS

Buongiorno Gianfranco, grazie della condivisione.

E’ molto significativo quanto riporti, non solo nell’ottica della consapevolezza di chi soffre di questa malattia anche nelle fasi avanzate (consapevolezza che non necessariamente è a livello cognitivo, ma spesso più a livello delle emozioni), ma anche pensando agli strumenti che abbiamo a disposizione per prenderci cura.

Da quanto riporti emerge innanzitutto come spesso le benzodiazepine (come l’En) possano avere effetto paradosso nelle persone affette da demenza e, ove possibile andrebbero evitate. Emerge però soprattutto la Competenza emotiva del signor Mario, che nell’occasione da te citata è stata espressa anche verbalmente. Come essergli vicino?
Potremmo cercare di negare e tranquillizzare (“Ma no, Mario, non dire così”… “Non è vero che non ti ricordi niente”… “Pensa a quante cose belle ci sono”…), ma credo che tutti abbiamo provato come questi tentativi non producano alcun effetto positivo e siano sostanzialmente dei tentativi per proteggere noi stessi dall’affrontare la sofferenza di Mario.
Perchè non provare allora a riconoscere a Mario la sua (giusta) emozione di sofferenza? Consapevole “di non ricordarsi niente” è più che comprensibile che provi scoramento.

L’Approccio capacitante (www.gruppoanchise.it) ci suggerisce i passaggi per arrivare a restituire un’emozione: una volta riconosciutala, come hai fatto, possiamo innanzitutto darle un nome (disperazione? Angoscia? Fatica? Demoralizzazione?). Possiamo poi legittimarla, cioè riconoscere che, almeno (ma non solo) dal punto di vista di Mario è comprensibile che ci sia (chi di noi accorgendosi di avere una demenza grave non proverebbe emozioni negative?) e infine restituirgliela (“Mario, vedo che oggi è veramente giù di morale”… “Mario, fa fatica a ricordare le cose e questo la preoccupa tanto”… “E’ davvero angosciato, Mario”…).
Solo così, credo, possiamo essere davvero vicini a Mario e dargli la possibilità di esprimersi e, in un secondo tempo, anche di ascoltarci, se lo vuole. Solo se si sente riconosciuto (e non sminuito) in una legittima emozione Mario potrà sentire di avere davanti una persona che entra davvero in relazione con lui ( e magari diventerà meno “imprecante e lamentoso” perchè finalmente qualcuno ha capito che cosa prova).

Mi rendo conto che questi passaggi siano tutt’altro che spontanei, è molto più facile la risposta consolatoria che ci toglie dalla difficoltà del presente, eppure dobbiamo iniziare a dirci che per prendersi cura delle persone con Alzheimer non aiuta (anzi, spesso crea danno!) quel buon senso che sentiamo dappertutto (“devi trattarlo bene, con dolcezza, incoraggiarlo, guardare il positivo…”???) con consigli buoni per tutte le stagioni e presenti in mille manuali ma privi di reale contenuto. Ri-creare la formazione vuol dire anche dare serietà e consistenza a quello che diciamo e iniziare a dare veramente peso ai nostri atteggiamenti e alle nostre parole.

Consentimi un’ultima, piccola nota: in tuta la tua relazione, che qui ho tagliato per centrare l’attenzione su quanto più ti stava a cuore (l’emergere della consapevolezza), parli di Mario come “il malato”. Ti lancio una sfida. Anche questo non è sempre spontaneo, ma è un passaggio credo indispensabile: sforzati, ogni volta che parli di Mario (o di chiunque altro), di chiamarlo con il suo nome, o di citarlo come persona ammalata. Ridiamogli la sua identità, che non è solo di malato, a partire dalle nostre parole e dai nostri sguardi.

Riscrivi tutta la relazione scrivendo “il signor Mario” ogni volta che hai scritto “il malato” (proprio come hai fatto nella email che mi ha inviato!): vedrai che suonerà in modo completamente diverso!

Grazie per il contributo.